Queste mie parole non saranno una recensione, né un commento e neanche una nota critica. Voglio solo tratteggiare la figura d’un uomo, che è morto agli inizi degli anni Ottanta. Si chiamava Dino Fantozzi. Era un cugino di mia madre. Si guadagnava da vivere vendendo macchine da scrivere e tenendo corsi di stenodattilografia. Dicevano che era un uomo buono. Molti suoi allievi gli erano riconoscenti perché dopo il conseguimento dell’attestato venivano assunti alla Piaggio come impiegati e qualcuno, che aveva il diploma, andava anche a insegnare a Ragioneria. Diventò cavaliere della Repubblica per meriti culturali e non si arricchì mai; aveva di che vivere e niente di più. Mia madre da adolescente rimase orfana di entrambi i genitori e aveva come punti di riferimento sua zia materna, un prete e appunto lui. La portava a giro con la macchina a Viareggio, a Marina di Massa, a Livorno, a Montecatini Terme. La portava anche a Bologna a far visita ad altri parenti. Mia madre mi ha sempre raccontato diversi episodi e aneddoti di Dino. Personalmente ho un ricordo molto sbiadito. Ero solo un bambino ed era molto affettuoso. Mi ricordo la sua calvizie, il suo fisico esile, la sua ironia, i suoi occhi da cui traspariva un’intelligenza vivace. Mi ricordo che viveva con un pittore e un’altra sua parente in una viareggina a Fornacette. Ancora oggi esiste quell’abitazione, ormai ristrutturata. Ogni volta che ci passo mi viene in mente Dino. Lui, una sua parente e il pittore avevano fatto la nuda proprietà: vivevano in quella casa, ricevevano dei soldi ogni mese, abitavano lì e dopo la loro morte quella villetta fu a disposizione della società. Non lasciò eredi, Dino. Non si sposò mai. Ebbe delle fidanzate, ma per incompatibilità caratteriale, modi diversi di intendere la vita le lasciò o venne lasciato. Mia madre sostiene che voleva essere fidanzato e avere le stesse identiche libertà di uno scapolo. Dino morì a 63 anni da solo in una notte in una stanza d’ospedale. Aveva il vizio del fumo e da giovane gli era già stato tolto un polmone; inoltre era debole di cuore. Culturalmente era un autodidatta dalle buone letture private. Era un attore di teatro amatoriale e cantava nel coro della chiesa. Era democristiano e quelli erano tempi di forti divisioni ideologiche; era l’Italia di Don Camillo e Peppone. So per certo che lui frequentava solo circoli Acli e non metteva mai piede nei circoli Arci per non fare discussioni accese e arrabbiarsi. Insomma un’altra epoca. Lui aveva le sue idee e credeva fermamente in esse. Pubblicò un solo libro di poesie. Si intitolava “Pensieri poveri di un povero uomo“. A quei tempi pubblicare un libro era un traguardo, un punto di arrivo, una meta raggiunta: era lontana ancora la proliferazione odierna di case editrici a pagamento. Non provate nemmeno a googlare il suo nome e cognome. Facendo surfing nei motori di ricerca non risulta nulla. Lo so che è molto strano, perché oggi chiunque scrive poesie è presente su qualche sito o ha un suo blog. A quei tempi non c’era l’autopromozione poetica di oggi e che io sappia Dino non presentò mai il suo libro, né partecipò a qualche premio letterario. In questa sua raccolta però vengono riportati all’inizio dei consensi critici, segno inequivocabile che qualche frequentazione letteraria l’ebbe pure lui. Qualche sodalizio poetico lo avrà avuto anche lui. La casa editrice che pubblicò il suo volume non esiste più. Il volume è ormai introvabile. Lui non è passato alla storia. Il mondo si è dimenticato di lui. Ma in fondo come scrive Sanguineti in una sua poesia di un morto di solito restano nella memoria di chi lo ha conosciuto appena cinque frasi e qualche suo tic. E lui è morto da più di quarant’anni, per cui sono pochissimi coloro che lo hanno conosciuto davvero di persona in modo approfondito. Resta solo qualche vecchia foto sua negli album di mia madre. Io l’ho visto solo sporadicamente. Ho scambiato con lui solo poche parole. Ho passato con lui solo qualche mezz’ora. Ero solo un bambino. Certe cose non le capivo. Non potevo capire la sua persona. Ero molto vivace, addirittura iperattivo e dispettoso, ma lui era indulgente e bonario nei miei confronti. Di questo suo libro mi è rimasta una sola copia con dedica. Lo conservo nella mia libreria. È un poco sgualcito, ma proprio perché è un ricordo non l’ho buttato via nel trasloco quando per esigenze di spazio ho donato alla biblioteca comunale o ho gettato via libri che hanno fatto la storia della letteratura. Non so niente della poetica di Dino. Non so niente dei libri di estetica che ha letto, né della sua formazione. Nelle sue poesie a ogni modo viene rappresentata la vita di provincia di quegli anni. C’è nelle sue poesie uno spaccato di provincia. C’è la vita di un piccolo paese con alcuni suoi personaggi. Sono componimenti scritti nella maturità; per questo motivo hanno uno sguardo retrospettivo e sono intrisi di malinconia, di nostalgia. C’è anche traccia della Storia (quella con la S maiuscola): ad esempio c’è una lirica sull’assasinio per mano delle Brigate Rosse del professor. Vittorio Bachelet che segnò un’epoca e che decise la vita di Rosy Bindi, allora assistente del professore che entrò in politica dopo il suo omicidio. Le sue liriche esprimono l’affetto verso i cari (il babbo, la mamma, la sorella, etc, etc), ma descrivono anche il suo tempo. C’è anche spazio per l’ironia, per la polemica contro la burocrazia, per la religiosità. Lui era un uomo del suo tempo, con la morale e la mentalità della sua epoca: bisogna tenerne conto sempre quando si leggono le sue cose. Eppure a mio avviso ha sempre qualcosa da dire, qualcosa che gli urge da dentro. Poi sembra trattare il lettore come “suo simile, suo fratello” o quantomeno parla con il cuore in mano. Dino inoltre passa dalla tristezza allo scherzo in questi suoi versi. Sa essere versatile. Sa divertire e far riflettere al contempo. Sono componimenti di solito brevi e lineari, ma caratterizzati da un’intelligenza che penetra nell’animo e nelle cose. Dice pane al pane e vino al vino, evitando intellettualismi tanto in voga nelle patrie lettere. In definitiva Dino una traccia l’ha lasciata per i suoi parenti, ovvero questo suo libro, che io custodisco gelosamente. È stato il suo lascito. E non importa che sia diventato celebre. Mi chiedo se è meglio essere stimati dalla comunità locale e essere ritenuti poeti dai conoscenti come lui oppure avere gloria postuma, scrivere un’opera immortale ed essere ritenuto dalla gente del paese un povero pazzo disadattato come Dino Campana. Lo so che questo mio interrogativo potrebbe essere ingeneroso e irriguardoso verso Campana. Ma io oggi mi occupo di Dino, che in fondo non si è mai autodefinito un poeta e di questa sua umiltà gliene va dato atto. Il titolo del suo libro lo testimonia: non si è mai autocelebrato. Ecco alcuni suoi componimenti:
A mia sorella
Le belle vetrine
ricolme di novità
tu non le hai viste
così come i musei
e i teatri, i laghi
e i soggiorni al mare
non godesti
né le serate
piene di stelle
accanto al tuo compagno
il sorriso di un figlio tuo
sei stata al letto
della mamma, e al mio
alla conca, e al tavolo da stiro
alternando il tutto
con i fornelli e la granata
Solo da Dio
sarai ricompensata.
Troppa fretta
Se
avessi
sorseggiato
giorno
per
giorno
la
mia
coppa
di gioia
ora
non
avrei
sete.
La realtà
Nella gioia
ho trovato
gli amici
nel dolore
li ho provati.
Sei veramente bella, ma…
Sei veramente bella
ma credi la vita
sia fatta di feste e di colori
e la civetteria è arbitra
delle tue ore
e ti vesti e ti trucchi
come una comparsa
in una commedia
che impara a memoria
la sua parte.
E senza luci
e con diverse vesti
non sapresti proseguire
ma la vita
non è una commedia.
Non pensi che quando sarà sera
quando le belle vesti
si muteranno in stracci
quando malgrado il trucco
saranno evidenti
i segni di stanchezza
il tuo cuore piangerà
per la tua logorante
e inutile fatica.
Non compiacerti troppo
della tua bella immagine
ma guarda la tua anima
che non vuole cipria e belletti
olii e cosmetici
e in un momento di silenzio
forse ti riconoscerai.
L’uomo e la scimmia
L’uomo – diceva un dottore-
è disceso dalla scimmia. Non è vero!
Gli rispose strillando uno scimmiotto
da una gabbia di ferro.
Lo sanno tutti ormai su questo pianeta
dove s ‘adora solo il Dio quattrino,
che tu sei stato fatto con la creta
o degno pronipote di Caino.
Perciò non lavorar di fantasia;
non dire frescacce a nome della scienza
tu non sei disceso dalla razza mia
perché tra noi c’è troppa differenza;
io non conosco l’odio, amo l’amore
e rispetto la legge del Signore,
tu invece rubi, meni, spari, strangoli.
Non ci sta freno che ti può tenè.
E ci hai due mani sole! Figuriamoci
se ce n’avessi quattro come me.
Nightclub
Specchietto per le allodole
mulinello di luci buie
che succhia
l’incauta gioventù
proponendo traguardi di fiaba
e in fiaccolanti notti vorticose
trasforma nel suo ventre
uomini e cose.
Così le ombre in luce
i sogni in realtà
l’amore in sesso
la musica in frastuono.
D’una luce accecante
ogni bassezza immonda
capovolgendo il senso della vita
e nascondendo ciò che li circonda.
Infelice chi in esso si trastulla
attratto dal suo tutto:
un tuttonulla.
La protesta della morte
Quando la morte intese giù al cancello
la gente che strillava a tutto spiano
per via d’un impiegato un poco ottuso
che aveva fatto trovare il cancello chiuso
per far entrare il morto al Camposanto,
pianse, poi disse a Dio: – Padre mio santo,
quello che accade qui, se guardi a fondo,
non si è mai visto da che mondo è mondo.
Da Adamo in poi, l’omaccio, diritto o storto,
si è impietoso sempre davanti a un morto,
e adesso che si è incivilito tanto,
non fa più entrare un morto al Camposanto!
Se seguita così, Signore mio,
lo sai che faccio?…Sciopero pure io!