Dopo aver letto questo libro e dopo essermi emozionato per queste 45 poesie, non riuscivo a fare mente locale. Non trovavo le parole per recensirlo perché mi sentivo inadeguato in quanto uomo. Inutile che condanni a parole la violenza maschile perché tutti noi uomini siamo intrisi di violenza, siamo educati in un certo modo; per quanto cerchiamo di distaccarci dalla mentalità comune maschilista, come scriveva Dario Bellezza “la bestia è in noi e latra”: insomma è difficile innalzarci da certa mentalità, deprogrammarci; dirò di più: anche negli uomini più evoluti e colti resta pur sempre qualche traccia di questo imprinting violento, che spunta fuori nei momenti d’ira o in alcune situazioni difficili. Quindi è inutile fingere, recitare la parte degli uomini sensibili: noi uomini siamo esattamente come quelli di questa ottima raccolta poetica e anche se non siamo degli stupratori, ebbene costoro fanno parte del nostro album di famiglia. Difficile dire dove inizi l’impulso predatorio o il senso del possesso. In un certo qual modo noi uomini siamo colpevoli della mascolinità feroce, che nei casi migliori pervade solo la nostra adolescenza e giovinezza. Ma queste belle poesie, non crude ma talmente reali e vere, aiutano noi uomini a un esame di coscienza, a farci vedere più chiaro, a capire di più degli ormai complessi rapporti tra uomini e donne. Ci aiutano a esercitare l’empatia, a comprendere la sofferenza femminile. Già questo è molto e bisogna riconoscerlo alla poetessa. Basta leggere questi versi: “Ancora stuprata e stuprata, mi tocca fingere/ che sia una rosa la mia croce”. Basta leggere la poesia “Cento cani su una gatta”, su uno stupro diventato caso di cronaca nazionale. Basta leggere la poesia su un’anziana donna derubata e stuprata in una sera a Milano. Una poesia che è testimonianza, denuncia, espressione e comunicazione allo stesso tempo del dolore femminile. Questo libro infatti è anche denuncia e testimonianza di un patriarcato non più dominante nelle istituzioni e legalmente ma ancora presente come retaggio e archetipicamente nella mentalità comune maschile. Ma la poetessa ha anche il merito di oggettivare il trauma con grande partecipazione emotiva e senza mai finire nella retorica. Non c’è traccia di assertività e nemmeno l’autrice finisce nel gorgo della polisemia. Una poetessa quindi che sa effettivamente quello che fa, che pesa ogni parola, che pondera ogni verso e tutto si scioglie in un lirismo autentico e cristallino. Il suo è un dettato chiaro e al contempo letterario. Cosa resta però se anche la felicità è “opinabile”? Cosa resta alla donna? Il sentirsi “compagne d’abisso”, ovvero la sorellanza, la solidarietà femminile e non solo: la poetessa infatti non è mai troppo cupa né troppo pessimista, ma lascia spiragli di speranza, perché sa benissimo che tutto può cambiare e migliorare (questo è un libro anche sul coraggio e sulla resistenza delle donne), che il futuro, come scriveva Popper, è ancora “aperto”. Ecco una poesia:
Cento cani su una gatta
Oggi l’inferno mi restituisce
la sua bestialità: video e fotografia
di una morte che mi ride
di fronte, mentre passo la tangente
dell’incubo, senza ritorno.
Ho urlato “basta” e ancora
urlo “basta”, con parole
incomplete. Trascinavo
allora la sofferenza alcolizzata
– da sette corpi sopraffatta –
con pugni e schiaffi incassati
mentre prigioniera li pregavo,
con un lontano tentativo
di lasciarmi volare altrove.
Dalla cronaca: “Falla ubriacare!
Falla ubriacare!”… Coincide
con il mio frullo infecondo
di ufficio. Un’alzata di polvere
si innalza dal terriccio,
sporca la chiamata del mio ventre,
ferito da sette balestre. E io preda
del cannibalismo, profanata
da quattordici mani, uscite dal luogo
di immagini che si moltiplicano, si deformano,
aggredita da fiordi di sguardi che crescevano
sulle mie ferite, sentivo le mie negazioni
smarrite, violentate a numerose
puntate, a infiniti assedi.
Dalla cresta di onde in punta
di piedi, il mio angelo custode
osservava, malato; e senza intervenire
si . girato dall’altro lato, dove
tutto diviene caleidoscopio di silenzio.
E dentro il silenzio si piegano
i miei polmoni con i rami, e i miei occhi
diventano un bosco senza alberi, le mie carni
lavate dalla vergogna del gabbiano,
mi portano lontano, dove pi. volte
sono venuta a conversare con l’angelo
dello sguardo perso che ignora
il male senza nome e la mia ombra
di vittima inascoltata.
Ancora stuprata e stuprata, mi tocca fingere
che sia una rosa la mia croce.
Dai giornali, una voce tra tante voci,
qualcuno dice: .Eravamo cento cani
su una gatta.. E dalla cronaca l’ultima
coltellata, mi riporta al marcio
pelo che non mi cresce sullo stomaco,
che non si lascia fare i nodi, mentre
la mia gola sanguina e vomita
dentro dolore e tosse.
Vittima di un’atroce predazione,
sono un pesce all’amo.