Il campionato argentino è uno dei campionati più affascinanti del mondo. Non solo per quello che succede in campo, dove si ammirano i giovani talenti argentini che verranno a giocare in Europa, ma soprattutto per quello che succede sugli spalti. Ne sanno qualcosa al Estadio Alberto Josè Armando di Buenos Aires, meglio conosciuto come La Bombonera, dove 60.000 anime non tifano, ma lottano e difendono i colori del Boca Juniors. Uno dei derby più caldi del mondo è proprio Boca Juniors – River Plate, El Superclàsico. Il calcio in Argentina si è giocato soprattutto alla Boca, il quartiere portuale dei genovesi arrivati dall’ Italia tra fine ‘800 e inizio ‘900, e siccome il River giocava anch’esso alla Boca era proprio un derby di quartiere, che oggi è il derby tra le due squadre più titolate d’Argentina. La rivalità ha raggiunto il suo punto massimo negli anni ’50, quando quelli del River, dopo aver venduto Di Stefano al Real Madrid e Sivori alla Juventus, abbandonarono il quartiere della Boca, quartiere povero, per trasferirsi a Núñez, quartiere ricco, dove costruirono el Estadio Monumental Antonio Vespucci Liberti, più semplicemente El Monumental. Da quel momento sono diventati per tutti “Los Millionarios”. Diventò così non solo uno scontro calcistico, ma anche ideologico: da una parte i ricchi (Il River) dall’altra i poveri (Il Boca). Questo si riflette anche nel modo di stare in campo delle due squadre: se il River è attento all’estetica e ama il bel gioco, il Boca se ne frega e si esalta nella “lucha” (la lotta) .
Alla Bombonera, un ora prima della partita, ci trovi già 40.000 tifosi che stanno cantando, che al fischio d’inizio diventano 60.000. Un rito. La curva più calda dello stadio è “La Doce” (la dodici, in riferimento al dodicesimo uomo in campo, che sono, appunto, i tifosi). Si dice che l’uomo in più, negli anni ’20, era tale Victoriano Caffarena, detto El Toto. C’era sempre: partite, allenamenti, ritiri. Lo imbarcarono insieme alla squadra quando il Boca fece il suo primo tour in Europa. Da lì sarà per sempre “el jugador numero doce”. Il calcio argentino mescola realtà e mito. Ne è un altro esempio l’altro derby di Buenos Aires, quello del Avellaneda, sobborgo della capitale argentina: il Racing e l’Indipendente hanno gli stadi che si guardano, la rivalità, quindi, è ancora più accesa. Nel 1966 si giocava l’Intercontinentale, cioè la vincente della Coppa Campioni (quell’anno il Celtic) contro la vincente della Coppa Libertadores (la Champions League Sudamericana) che è proprio il Racing. Quando i tifosi del Racing erano in trasferta per seguire la partita, i tifosi dell’ Indipendiente entrano nello stadio del Racing e seppelliscono sette gatti neri in giro per il campo. Superstizione o meno, il Racing per 35 anni non vinse più niente.
La fantasia dei tifosi albicelesti è chiaramente visibile anche nei soprannomi che vengono dati ai giocatori. In Argentina puoi essere el Coco, la testa, come Erik Lamela; el Flaco, il magro, come Javier Pastore; el Pelado, se almeno una volta hai avuto i capelli rasati, come Matìas Almeyda; el Negro, se hai la pelle olivastra; el Chino, se hai gli occhi a mandorla, come Recòba; el Mudo, se parli poco, come Vazquez o Riquelme. Ma in certi casi la fantasia è andata oltre: Maxi Moralez, detto el Frasquito, cioè il barattolino di marmellata che la mamma da al bambino per colazione, perchè lo “snap”, il rumore del tappo quando viene aperto, è il rumore che fa lui quando calcia il pallone. Oppure el Jardinero Cruz, il giardiniere, perchè da ragazzino, dopo un goal al Boca Juniors, si mise a giocare di fianco ad un tagliaerba. El Conejo Saviola, grazie agli incisivi prominenti che ricordano quelli di un coniglio. El Pipita Higuain, derivante dalla forma del naso del padre, anch’esso calciatore, conosciuto in Argentina come la Pipa. Oppure El Fideo Angel Di Maria, lo spaghetto, data la sua corporatura longilinea simile, appunto, ad uno spaghetto. Questi sono solo alcuni di una lunghissima lista.
Come si fa a non innamorarsi del calcio Argentino?